feb 11

L’imposta evasa non può rappresentare il profitto del reato di corruzione in atti giudiziari.

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L’imposta evasa non può rappresentare il profitto del reato di corruzione in atti giudiziari.

Le ultime disposizioni dettate in materia di corruzione e illegalità nella pubblica amministrazione hanno interessato anche il vasto panorama della “responsabilità amministrativa da reato” delle persone giuridiche.

Il Legislatore, con la L. 190/2012, ha introdotto numerosi strumenti diretti alla prevenzione e  alla repressione del fenomeno corruttivo. Di assoluto rilievo è la previsione dei nuovi reati di “corruzione tra privati” e di “induzione indebita a dare o promettere utilità”.

Tali fattispecie criminose rientrano tra le ipotesi di “reato presupposto” che possono configurare la responsabilità amministrativa da reato a carico delle imprese e che determinano la conseguente applicazione, da parte del giudice, di sanzioni pecuniarie ed interdittive.

Ai sensi del novellato art. 25-ter del D.Lgs. 231/2001, nell’ipotesi di “corruzione tra privati” il giudice può comminare una sanzione pecuniaria fino ad un massimo di 620 mila euro a carico della società corruttrice, cioè dell’impresa nel cui interesse è stata commessa la corruzione. Mentre, nell’ipotesi di “induzione indebita”, la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 25 è ancora più pesante. Essa può arrivare ad un massimo di 1 milione e 240 mila euro. A tanto aggiungasi che, a norma dell’art. 19 del D.Lgs. 231, in caso di condanna dell’ente è sempre disposta “la confisca del prezzo o del profitto del reato”.

In materia di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, previsti dal combinato disposto degli artt. 19 e 53 D. Lgs. 231/2001 e 321 cod. pen., si è più volte pronunciata la Suprema Corte di Cassazione. Tra le pronunce più rilevanti degli ultimi anni rientra senza ombra di dubbio la sent. n. 11029/13. La vicenda riguarda una grande società per azioni accusata di aver commesso, tramite individui che ricoprivano posizioni apicali all’interno della compagine aziendale,  il reato di “corruzione in atti giudiziari” (art. 319-ter cod. pen.). La corruzione sarebbe stata perpetrata al fine di ottenere, da parte del Giudice Tributario di secondo grado (CTR), una pronuncia di annullamento degli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate per un valore complessivo di circa 60 milioni di euro. Nel caso in esame, il giudice per le indagini preliminari aveva disposto il sequestro preventivo ai fini della confisca di somme di denaro, beni mobili e immobili, conti correnti bancari, ecc, nella disponibilità della società, per un ammontare corrispondente alla pretesa del Fisco, cioè circa 60 mln. Tanto perché a seguito di pronuncia di annullamento degli avvisi di accertamento emessa dal giudice tributario presunto corrotto, la società avrebbe conseguito un indebito ed immediato profitto, consistente nel mancato pagamento della pretesa erariale. Tale assunto era stato confermato anche dal Tribunale penale che ha rigettato con ordinanza l’appello proposto avverso il provvedimento di sequestro disposto dal G.i.p.. Il Giudice di legittimità, invece, ha annullato senza rinvio l’ordinanza del Tribunale di cui sopra disponendo il dissequestro e la restituzione all’avente diritto delle cose sequestrate. Ebbene la motivazione fornita dalla Cassazione fissa alcuni importanti e condivisibili paletti in materia.

Deve rammentarsi che in materia di reati tributari, secondo l’orientamento prevalente, è possibile il sequestro preventivo di beni patrimoniali (ai fini della confisca per equivalente) per un ammontare pari all’imposta evasa. Ciò in quanto l’imposta non versata all’erario rappresenta un profitto collegato “direttamente” alla condotta illecita, cioè all’evasione fiscale. È quindi la stretta correlazione tra condotta illecita e risparmio d’imposta ad attribuire a tale indebito vantaggio la qualifica di “profitto” del reato. In altri termini, secondo la Cassazione, “il profitto del reato deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta”. Deve ritenersi pertanto che nei reati tributari il vantaggio patrimoniale consistente nell’evasione di imposta, derivi direttamente e “indubitabilmente” dalla condotta dell’agente.

Per tale conclusione, invece, non può di certo propendersi nel caso in cui si discuta del delitto di corruzione in atti giudiziari. Esso non ha ad oggetto l’evasione d’imposta, bensì la pronuncia del giudice tributario. Non può ignorarsi, infine, che nel ventaglio dei reati presupposto elencati dal D. Lgs. 231 non rientrano i reati tributari disciplinati dal decreto legislativo 74 del 2000.

In conclusione secondo la Cassazione, la confisca per equivalente, al pari del sequestro preventivo, sono possibili soltanto qualora il giudice accerti la “diretta derivazione del profitto del reato dalla condotta dell’autore”. 

Luca Cellamare