Ogni ragionamento in materia di uguaglianza deve necessariamente prendere le mosse dalla nostra Carta costituzionale, nella quale il concetto di parità espresso nell’art. 3 ( “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso») viene confermato dall’art. 29 (« Il matrimonio è fondato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi») e dall’art. 37 («La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una adeguata protezione» ).
Anche l’art. 48 si muove nel solco della parità (“Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”), così come l’art. 51 conferma che «tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
Il dato storico segnala che alla Commissione dei 75, incaricata di redigere il testo della Carta costituzionale, parteciparono quattro donne: Maria Federici democristiana, Lina Merlin socialista, Teresa Noce e Nilde Jotti comuniste. Il testo costituzionale, infatti, segna un avanzamento sostanziale per le italiane, anche se non sono mancate riserve e lentezze nell’attuazione piena del principio di parità che hanno attraversato tutto il Novecento, definito, non a caso, il «secolo delle donne».
Per verificare il percorso compiuto è sufficiente scorrere idealmente le tappe del Novecento. A partire, per esempio, dal fatto che nel 1900 le iscritte nei licei italiani erano solo 287. Il decreto legge luogotenenziale Il. 23 del l° febbraio 1945 riconosce alle donne il diritto di voto, esercitato nel 1946 per la prima volta alle politiche, che vedono elette, nel neonato Parlamento repubblicano, 45 donne alla Camera e 4 al Senato. Solo nel 1963 è approvata la legge n. 66 che ammette le donne a tutti i pubblici uffici e a tutte le professioni (compresa la magistratura).
Nel 1977, con Tina Anselmi ministro del Lavoro, viene approvata la legge n. 903 sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro. Infine, solo nel 1981, viene abrogata la rilevanza penale della causa d’onore come attenuante nei
delitti.
Un lungo cammino
La marcia verso la piena attuazione del principio di uguaglianza fa registrare alcuni momenti interessanti a partire dall’ evoluzione del concetto stesso di uguaglianza da una visione più formale a quella attuale di pari opportunità. Nel corso degli anni, infatti, si è preso atto che rimaneva irrisolto il tema della presenza femminile
nelle istituzioni.
Nel 1984 viene istituita, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, la «Commissione nazionale per la realizzazione della parità e delle pari opportunità fra uomo e donna», voluta da Bettino Craxi e presieduta dalla senatrice Elena Marinucci proprio a dimostrazione della necessità di un organismo istituzionale per supportare il governo su questo delicato aspetto.
È sul tema dell’equilibrio della rappresentanza che si incontrano le difficoltà maggiori e le resistenze più dure da parte di una classe politica che, pur sostenendo verbalmente delle tesi, all’atto pratico non è coerente con quello che dichiara.
Tanti sono i luoghi comuni o le affermazioni banali e scontate che si sentono in convegni e dibattiti sul tema delle cosiddette ‘quote’, mentre l’argomento vero da affrontare è quello della sostituzione: infatti, una maggiore presenza femminile comporta, inevitabilmente, una diminuzione di “quote’ di presenza maschile.
Ci sono alcuni nodi cruciali da sciogliere in un paese in cui innanzitutto
l’impegno politico viene considerato da molti come una vera e propria attività lavorativa e, in secondo luogo, non esistono regole sulle incompatibilità. Secondo tale prassi, si verifica una ciclica sovrapposizione di ruoli nei direttivi dei partiti e di incarichi nelle istituzioni le cui nomine sono decise, appunto, dagli stessi partiti.
L’importanza delle norme elettorali
Una testimonianza dell’azione di impulso svolta dalle donne elette in Parlamento, dove spesso si registra una convergenza trasversale, è rappresentata dall’approvazione del principio cosiddetto delle “quote’ nelle leggi elettorali: nella legge del 25 marzo 1993 Il. 81, relativa a «Elezione diretta del sindaco, del presidente della Provincia,
del Consiglio comunale e del Consiglio provinciale», l’art. 5 prevede che «nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi».
Analoga disposizione viene stabilita nella legge elettorale per le Regioni a statuto ordinario (n. 43 del 23 febbraio 1995), nella quale si legge: «In ogni lista regionale e provinciale nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati» .
Anche la precedente legge elettorale per la Camera basata sui collegi uninominali maggioritari e su una quota proporzionale statuiva l’alternanza fra uomini e donne nelle liste proporzionali.
L’approvazione di tali norme è stata caratterizzala da un ampio dibattito con posizioni molto differenti tra chi riteneva quella delle “quote’ una norma mortificante per le donne ‘panda’ e chi, invece, giudicava necessaria questa misura temporanea per ridurre il divario di presenza femminile nelle istituzioni.
Il dato certo è che, in vigenza di tali disposizioni, nelle elezioni svoltesi in quegli anni si è registrata, non a caso, la maggiore presenza femminile sia in ambito politico, con 91 donne elette alla Camera dei deputati e 29 al Senato, sia nelle Regioni e, infine, anche in ambito amministrativo.
Ad esempio,” nelle elezioni regionali del 1995, nella Regione Puglia sono state elette, tra “listino’ e liste proporzionali, ben 8 consigliere regionali e anche nelle altre Regioni
italiane si è registrato un fenomeno analogo.
Le quote intese come diritto di partecipazione
Il meccanismo della presenza obbligata’ delle donne nelle liste – un obbligo di presenza che, è bene precisarlo, attiene al requisito della candidabilità e giammai dell’elezione garantita attraverso la riserva di seggi – ha rappresentato un significativo passo avanti sul tema del «riequilibrio della rappresentanza».
Ma questo percorso ha subìto un brusco arresto con la sentenza della Corte costituzionale n. 442 del 1995 nella quale la Corte, chiamata opportunamente in causa, ha analizzato persino i lavori preparatori della legge elettorale e ha sostenuto:
“ In particolare, in tema di diritto all’elettorato passivo, la regola inderogabile
stabilita dallo stesso Costituente, con il primo comma dell’art. 51, è quella della assoluta parità, sicché ogni differenziazione in ragione del sesso non può che risultare oggettivamente discriminatoria, diminuendo per taluni cittadini il contenuto concreto di un diritto fondamentale in favore di altri, appartenenti ad un gruppo che si ritiene svantaggiato.
È ancora il caso di aggiungere – dice sempre la Corte – come ha già avvertito parte della dottrina nell’ampio dibattito sinora sviluppatosi in tema di “azioni positive’, che misure quali quelle in esame non appaiono affatto coerenti con le finalità indicate dal secondo comma dell’art.3 della Costituzione, dato che esse non si propongono di “rimuovere’ gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso.
Ma proprio per questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.
La Corte, peraltro, si è mostrala consapevole del fenomeno della scarsa partecipazione femminile nell’accesso alle cariche elettive: tant’è che ha avvertito l’esigenza di richiamare, in un passo della sentenza, una risoluzione del Parlamento europeo del 1988, nella quale si invitavano i partiti politici a stabilire quote di riserva per
le candidature femminili.
In pratica la Corte vuol dire: il problema della sotto rappresentazione del genere femminile nelle istituzioni esiste di fatto, ma va risolto a livello politico; ovvero va risolto per il tramite di scelte che competono ai partiti politici, i quali debbono valutare e vagliare al loro interno le candidature alle elezioni cercando di privilegiare e
valorizzare la componente femminile.
Dopo la sua articolata disquisizione, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale non solo della legge elettorale per Comuni e Province (n. 81 del 1993) ma ha travolto, anche, tutte le disposizioni simili contenute nelle leggi per l’elezione della Camera dei
deputati, per l’elezione dei Consigli delle Regioni a statuto ordinario e delle Regioni a statuto speciale.
Una vera Caporetto per tutte coloro che hanno visto nelle quote un «male necessario», uno strumento utile per convincere i partiti a coinvolgere le donne nelle competizioni elettorali.
Come appare chiaro, la motivazione dell’uguaglianza formale è stata ritenuta prevalente dalla Corte, anche se la stessa indica un percorso da seguire quando sostiene che «spetta al legislatore individuare interventi di altro tipo [ ... ] per favorire il riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure possono essere in grado di agire sulle condizioni culturali, economiche e sociali».
Questa battuta d’arresto ha fatto apparire evidente alla Commissione nazionale per le pari opportunità e, più in generale, a tutte le donne impegnate sul tema, che a Costituzione invariata non era più possibile proporre altre leggi simili a quella abrogata e che, quindi, era indispensabile avviare, con urgenza, il percorso della modifica
dell’art. 51 della Costituzione per introdurvi il principio delle pari opportunità.
In Francia tutto questo è già avvenuto nel 1999, a cominciare dalla modifica della propria Carta costituzionale con l’introduzione del principio secondo cui «La loi favorise l’égal accès des femmes et des hommes aux mandats électoraux et fonctions électives,) (la legge favorisce l’eguale accesso delle donne e degli uomini ai
mandati elettorali e alle cariche elettive) e con l’emanazione di coerenti leggi elettorali: tutto ciò ha portato a quella che i francesi chiamano la «démocratie paritaire», con una ottima percentuale di donne presenti sia in Parlamento che nelle amministrazioni locali.
L’intervento dell’Unione Europea
Dopo la sentenza del 1995, le discussioni sul tema delle “quote’ sono andate avanti e hanno fatto registrare due importanti novità.
La prima è rappresentata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, approvata a Nizza i16 dicembre 2000, in cui, al capo III – Uguaglianza, l’art 23 “Parità tra uomini e donne” testualmente recita: «La parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro
e di retribuzione. Il principio di parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sotto rappresentato».
La seconda novità è costituita, nell’ordinamento italiano, dalla legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3 relativa a «Modifiche al titolo V della seconda parte della Costituzione , nella quale sono previste importanti innovazioni rispetto ai poteri in materia legislativa conferiti alle Regioni.
Il comma settimo del nuovo articolo 1177 Cost. recita: «Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle dorme nella vita sociale, culturale ed economica e promuovere la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive».
Tale formulazione conteneva un principio sicuramente innovativo per quanto riguarda le Regioni e ha fatto aumentare le aspettative rispetto all’inserimento di una analoga previsione nella prima parte della Costituzione.
Finalmente, nel febbraio 2003, dopo la doppia approvazione parlamentare, si è giunti alla integrazione del primo comma dell’art. 51 Cost.: «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», a cui sono state aggiunte
le seguenti parole: «A tal fine la Repubblica promuove, con appositi provvedimenti, le pari opportunità tra donne e uomini».
Con la previsione della nuova formula si è così data copertura costituzionale a tutte le future norme elettorali l:on le quali venissero garantite, in modo eguale per entrambi i sessi, condizioni pari di accesso alle cariche elettive, vale a dire un’eguaglianza dei punti di partenza. In tal modo, le norme non sarebbero assimilabili alle azioni positive, cioè norme dirette a favorire le donne attribuendo ad esse vantaggi speciali e diversi, ma piuttosto sarebbero norme con funzione antidiscriminatoria, miranti cioè a regolare in modo eguale la posizione di donne e uomini.
Quindi, norme dirette a promuovere l’eguaglianza di chances e non misure rivolte a raggiungere direttamente il risultato come, per esempio, garantire dei seggi parlamentari riservati alle donne. A dare man forte a questa interpretazione è stata la stessa Corte costituzionale, che ha emesso, quasi in contemporanea con la definitiva approvazione del nuovo art. 51 Cost., la sentenza n. 49 del 13 febbraio 2003.
Infatti, la Corte, nel giudizio intentato dal Consiglio dei Ministri contro la legge elettorale approvata dalla Regione Valle d’Aosta, ha ritenuto costituzionalmente legittima la norma elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale della Valle d’Aosta stessa, la quale prevede che, nelle liste elettorali, siano presenti candidati di entrambi
i sessi.
La Costituzionalità di questa norma è garantita, secondo la Corte, dalla legge Costituzionale n. 2 del 2001, che ha modificato gli statuti delle Regioni speciali prevedendo, tra l’altro, che la legge regionale «promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali» e, in tal senso, sarebbe semmai illegittima quella legge elettorale regionale che non tenesse conto della disposizione statutaria.
La sentenza della Corte costituzionale merita una lettura anche da parte di chi non ha estrema familiarità con la giurisprudenza sia per la chiarezza del linguaggio sia per l’individuazione precisa delle responsabilità addebitate ai partiti politici che, però, hanno messo il silenziatore all’importante verdetto.
È indubbio che sia trascorso un lungo intervallo di tempo, dal 1995 al 2003, vale a dire dalla sentenza della Corte Costituzionale alla modifica dell’art. 51 della Costituzione, ma si può finalmente dire che, ormai, tutto il quadro normativo è completo. Dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea in giù le norme sanciscono il principio coerente: esiste un sesso sottorappresentato e quindi occorre
procedere per ridurre tale divario.
Gli «appositi provvedimenti», di cui parla adesso l’art. 51 Cost. devono sostanziarsi in una modifica delle leggi elettorali relative al Parlamento (Camera e Senato), ai Comuni e alle Province per consentire alle donne di essere presenti come candidale in una percentuale non inferiore al 30%.
Inoltre i partiti dovrebbero adottare azioni positive consistenti, per esempio, in incentivi di natura finanziaria rivolti a favorire le candidature femminili, oppure deroghe alla parità di trattamento quanto all’ accesso ai mezzi di informazione per assicurare alle donne candidate una maggiore visibilità.
Si potrebbe, inoltre, pensare all’incentivazione delle elezioni primarie, o a rafforzare le scelte già avviate da alcuni partiti politici che, nelle modifiche dei propri statuti, hanno previsto forme di cooptazione e/o di presenza delle donne negli organismi dirigenti.
L’Italia deve veramente avviarsi su questa strada se non vuole restare il fanalino d’Europa per le percentuali delle presenze femminili nelle istituzioni.
Nunzia Bernardini Pepe