Disciplinata dall’art. 163 del codice penale l’istituto della sospensione condizionale della pena è improntato ad una logica di favor libertatis e di attuazione del finalismo rieducativo della pena, così come previsto dall’art. 27 della Carta costituzionale.
La concessione del beneficio in esame è riservata unicamente al giudice che ha emesso la sentenza di condanna e si basa su di un giudizio prognostico dallo stesso giudicante risolto in termini favorevoli circa la previsione della non commissione da parte del soggetto condannato di altri fatti di rilievo penale.
Non è quindi un beneficio disponibile da parte del soggetto ritenuto responsabile di un fatto penalmente rilevante.
All’uopo il comma 1 dell’articolo prima citato chiarisce che “Nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione o all’arresto per un tempo non superiore a due anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell’articolo 135, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore , nel complesso, a due anni, il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa per il termine di cinque anni se la condanna è per delitto e di due anni se la condanna è per contravvenzione ….”.
Si può ritenere quindi che l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale realizza una fattispecie a formazione progressiva, che determina l’effetto immediato di differimento dell’inizio dell’esecuzione della pena e l’ulteriore effetto futuro ed eventuale dell’estinzione del reato, qualora il beneficiario si asterrà dal compimento di altri delitti.
Chiarito l’ubi consistam dell’istituto in considerazione, istituto, giova ribadirlo, improntato ad una logica di contenimento delle conseguenze derivanti dalla commissione di un illecito penale e di salvaguardia della personalità del soggetto autore di un unico fatto di reato, occorre prendere in debita considerazione gli effetti “favorevoli” che tale beneficio comporta, non solo in ambito strettamente penalistico.
L’art. 166 del codice penale al suo primo comma chiarisce che “La sospensione condizionale della pena si estende alle pene accessorie.
La condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l’applicazione di misure di prevenzione, né d’impedimento all’accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificatamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorative”.
La norma testé riportata descrive in dettaglio l’ambito di operatività del beneficio in questione, riferendosi anche alle pene accessorie a quelle principali rappresentata dalla reclusione o dall’arresto.
Occorre chiarire cosa il legislatore abbia ricompreso nel concetto di pene accessorie e come tali non applicabili nel caso di concessione della sospensione condizionale della pena.
All’uopo significativa è la norma dell’art. 19, comma 1, del codice penale a tenore del quale “Le pene accessorie per i delitti sono:
- l’interdizione dai pubblici uffici;
- l’interdizione da una professione o da un’arte;
- l’interdizione legale;
- l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;
- l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione;
5.bis l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro;
6. la decadenza o la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.”
Con il riconoscimento del beneficio di cui all’art. 163-166 c.p., nessuna di questi provvedimenti accessori può essere applicato al soggetto destinatario, né costituire la condanna a pena sospesa motivo per l’applicazione di misure di prevenzione, d’impedimento all’accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificatamente previsti dalla legge, né per il diniego di concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorative.
Questa puntualizzazione fatta dal legislatore risulta ossequiosa della finalità sottesa al beneficio de quo, che, come detto, persegue l’intento di ammonire il soggetto autore del reato, e di consentirgli di redimersi nel periodo di tempo necessario al maturare dell’estinzione del reato, senza applicargli nessun tipo di provvedimento lato sensu di natura afflittiva-sanzionatoria.
Ed invero, una volta sospesa l’esecuzione della pena di contenuto più grave ed afflittivo, a fronte del giudizio prognostico favorevole di cui all’art. 164, c.p., avrebbe poco senso pensare ad una esecuzione svincolata ed autonoma delle eventuali pene accessorie, spesso gravemente limitative della capacità personale dell’individuo in primis quella lavorativa in cui si esplica la sua personalità.
Eventuali deroghe a tale impianto normativo, come chiarito dal comma 2 dell’art. 166, c.p., devono essere specificatamente previste dalla legge.
Occorre quindi, analizzare le singole e specifiche discipline di settore per verificare se, le stesse, contemplino delle eccezioni all’operatività del beneficio in esame e di che portata.
Nel caso che ci occupa, la normativa che viene in evidenza è quella dettata dal decreto 18 marzo 1998, n. 161, che ha adottato il regolamento recante norme per l’individuazione dei requisiti di onorabilità e professionalità degli esponenti aziendali delle banche e delle cause di sospensione.
In particolare l’art. 5 di detto regolamento statuisce che “1. Le cariche, comunque denominate, di amministratore, sindaco e direttore generale in banche non possono essere ricoperte da coloro che:
a) si trovano in una delle condizioni di ineleggibilità o decadenza previste dall’articolo 2382 del codice civile;
b) sono stati sottoposti a misure di prevenzione disposte dall’autorità giudiziaria ai sensi della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, o della legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni ed integrazioni, salvi gli effetti della riabilitazione;
c) sono stati condannati con sentenza irrevocabile, salvi gli effetti della riabilitazione:
1) a pena detentiva per uno dei reati previsti dalle norme che disciplinano l’attività bancaria, finanziaria, mobiliare, assicurativa e dalle norme in materia di mercati e valori mobiliari, di strumenti di pagamento;
2) alla reclusione per uno dei delitti previsti nel titolo XI del libro V del codice civile e nel regio decreto del 16 marzo 1942, n. 267;
3) alla reclusione per un tempo non inferiore a un anno per un delitto contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica, contro il patrimonio, contro l’ordine pubblico, contro l’economia pubblica ovvero per un delitto in materia tributaria;
4) alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per un qualunque delitto non colposo.
2. Le cariche, comunque denominate, di amministratore, sindaco e direttore generale in banche non possono essere ricoperte da coloro ai quali sia stata applicata su richiesta delle parti una delle pene
previste dal comma 1, lettera c), salvo il caso dell’estinzione del reato; le pene previste dal comma 1, lettera c), n. 1) e n. 2) non rilevano se inferiori a un anno.
3. Con riferimento alle fattispecie disciplinate in tutto o in parte da ordinamenti stranieri, la verifica dell’insussistenza delle condizioni previste dai commi 1 e 2 è effettuata sulla base di una valutazione di equivalenza sostanziale a cura della Banca d’Italia”.
La norma ora riportata non contempla quindi i casi in cui il soggetto sia stato condannato con sentenza non definitiva e con la concessione della sospensione condizionale della pena. In quest’ultima ipotesi, quindi, è intermante applicabile la disciplina generale prevista dall’art. 166, c.p., nei termini prima chiariti.
Lo stesso regolamento contempla anche casi in cui il consiglio di amministrazione degli istituti di credito, al ricorrere di alcuni casi tassativamente previsti, può adottare nei confronti di un soggetto che riveste il ruolo di sindaco e che sia stato condannato per determinati reati, provvedimenti di sospensione dalla carica ricoperta.
In tal senso l’art. 6 rubricato “Sospensione dalle cariche” dispone che “1. Costituiscono cause di sospensione dalle funzioni di amministratore, sindaco e direttore generale:
a) la condanna con sentenza non definitiva per uno dei reati di cui al precedente articolo 5, comma 1, lettera c);
b) l’applicazione su richiesta delle parti di una delle pene di cui all’articolo 5, comma 2, con sentenza non definitiva;
c) l’applicazione provvisoria di una delle misure previste dall’articolo 10, comma 3, della legge 31 maggio 1965, n. 575, da ultimo sostituito dall’articolo 3 della legge 19 marzo 1990, n. 55, e successive modificazioni e integrazioni;
d) l’applicazione di una misura cautelare di tipo personale.
2. Il consiglio di amministrazione iscrive l’eventuale revoca dei soggetti, dei quali ha dichiarato la sospensione, fra le materie da trattare nella prima assemblea successiva al verificarsi di una delle cause di sospensione indicate nel comma 1. La sospensione del direttore generale nominato dagli amministratori non può durare oltre quarantacinque giorni, trascorsi i quali il consiglio di amministrazione deve deliberare se procedere alla revoca, salvo i casi previsti dalle lettere c) e d) del comma 1. L’esponente non revocato è reintegrato nel pieno delle funzioni. Nelle ipotesi previste dalle lettere c) e d) del comma 1, la sospensione si applica in ogni caso per l’intera durata delle misure ivi previste”.
A differenza dell’art. 5, l’art. 6 legittima l’adozione di provvedimenti di sospensione dalla carica (sindaco) in presenza di condanne per reati contro la Pubblica Amministrazione, anche nel caso in cui la sentenza che ha accertato la commissione del reato da parte del soggetto, sia una sentenza non definitiva e quindi non abbia acquisito il crisma del giudicato.
La disposizione, tuttavia, non contempla l’ipotesi in cui un soggetto ricoprente la carica di sindaco di un istituto di credito sia stato condannato per determinati reati, in particolare contro la P.A., con sentenza non definitiva ma condizionalmente sospesa.
È opportuno, dunque, procedere al coordinamento tra le norme che in questo caso vanno richiamate.
Prima di procedere all’esame degli artt. 19, 163, 166, c.p. e 6 del decreto legge n. 161/1998, giova sgomberare il campo da possibili equivoci in ordine alla esatta distinzione tra sentenza di condanna non definitiva e sentenza di condanna, anche divenuta irrevocabile, ma sospensivamente condizionata.
Come sopra detto, la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena è attribuita al potere discrezionale del giudice che, ricorrendone i presupposti previsti dall’art. 163 c.p., può concederla al soggetto che ritenga di meritarla, a seguito di un giudizio prognostico di non commissione di ulteriori fatti di reati.
Durante il periodo di “valutazione”, che per i delitti è pari a cinque anni dall’emissione della sentenza, il beneficiario non si vede applicata nessuna sanzione, neanche accessoria, restando appunto gli effetti sospesi. L’esito positivo di tale periodo di prova, determinerà l’estinzione del reato.
Questo risultato non si ottiene con la sentenza non definitiva, che si riferisce all’ipotersi in cui vi è una vacatio tra la pronuncia di primo grado e l’eventuale giudizio di secondo.
Il riferimento contenuto nell’art. 6, comma 1, decreto legge n. 161, infatti, prende in considerazione l’ipotesi di sentenza di condanna non definitiva e non di condanna sospensivamente condizionata, con la conseguenza che, in quest’ultimo caso le norme da applicare sono quelle contenute nel codice penale e non l’art. 6.
Un riconoscimento esplicito alla non adozione di provvedimenti “sanzionatori-disciplinari “ in caso di estinzione del reato, è effettuato dallo stesso decreto in esame che, al comma 2 dell’art. 5, fa in ogni caso salvo gli effetti dell’intervenuta estinzione del reato.
È evidente che nel caso di specie non risulta integrata l’eccezione prevista dal secondo comma dell’art. 166, c.p. che autorizza deroghe al normale regime di applicazione del beneficio della sospensione condizionale in casi tassativamente previsti dalla legge, in quanto l’art. 6 non contempla l’ipotesi di condanna sospensivamente condizionata, ma quella della sentenza non definitiva di condanna, da ritenersi diversa dalla prima per gli effetti che comporta e per le ragioni sopra esposte.
Ne deriva che in ipotesi siffatta, troverà applicazione l’art. 166, nella misura in cui esclude l’applicazione, in casi di condanna a pena sospensivamente condizionata, di pene accessorie di natura interdittiva e preclusiva dell’accesso e/o mantenimento di posti di lavoro pubblici o privati (comma 2 art. 166 c.p.).
L’irrogazione di sanzioni anche temporanee si porrebbe in antinomia con la finalità dell’istituto, che ha come scopo quello di giungere alla dichiarazione di estinzione del reato, nell’ipotesi in cui il beneficiario non abbia commesso altri reati della stessa indole nel periodo di cinque anni dalla prima condanna sospesa, giusto il disposto dell’art. 167 c.p.
La norma dell’art. 6 decreto n. 161,quindi, ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit, essendo ben note al legislatore la distinzione ontologica tra sentenza irrevocabile, sentenza non definitiva e sentenza condizionalmente sospesa. In altri casi, infatti, il legislatore ha previsto l’irrogazione di sanzioni accessorie (sospensione e revoca dagli incarichi), anche nei casi di riconoscimento da parte del giudice penale del beneficio ex art. 163 c.p., in altri, come nel nostro caso, no secondo una scelta discrezionale non sindacabile. Tuttavia, la previsione dei casi in cui non opera il beneficio della sospensione condizionale della pena, stante il chiaro disposto del comma 2 dell’art. 166, c.p., deve essere prevista espressamente dalla legge, trattandosi di deroghe che incidono sul favor libertatis e come tali non passibili di interpretazioni analogiche in malam partem.
A cura dell’Avv. Giacomo Barbara