La Corte di Cassazione conferma l’orientamento secondo cui l’accesso abusivo ad un sistema informatico, forzando una password, equivale a introdursi in un «domicilio informatico» protetto, come se fosse la porta di casa chiusa a chiave.
Se per accedere ad un account di e-mail o di un social network si utilizza una chiave rubata per la Cassazione si applica la normativa della classica violazione di domicilio, che comporta la reclusione fino a tre anni.
Per la suprema Corte, invece, è lecito utilizzare una password per entrare nel computer altrui purché con uno scopo ben preciso e indicato dal titolare delle credenziali, ma non bisogna superare il limite in quanto può scattare il reato di violazione di domicilio del codice penale.
Secondo la Cassazione, chi protegge con una password, la propria e-mail, il proprio profilo del social network, i documenti digitali riservati e tenuti nella memoria di un pc, protegge i suoi dati sensibili ai quali nessuno deve accedere senza permesso: dunque forzare una password, cioè violare quello spazio non autorizzato è considerato reato alla pari della violazione di domicilio .
Se ciò succede sul posto di lavoro, cioè se sorprendiamo qualche collega a navigare nella nostra casella aziendale, l’amministratore di sistema della ditta può documentare l’orario e quali documenti siano stati consultati.
Chi diffonde i dati “ rubati” sul web commette altri reati: sia l’accesso abusivo ai nostri dati personali sia il reato di trattamento illecito di quei dati : l’intruso rischia fino a 3 anni di reclusione per violazione della corrispondenza , da sommare agli altri 3 per aver forzato la password e commettere violazione di domicilio informatico nonché alla pena per trattamento illecito dei dati personali .